LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE
   Ha emesso la seguente ordinanza:
     sul ricorso n. 7158/95 depositato il 1 dicembre 1995;
     avverso  avv.  di  liquid.  n.  91/03002/000085/002,  successione
 contro  registro  di  Firenze  giudiziari  successioni,  proposto  da
 Maestrini  Iolanda,  residente  a  Montespertoli  (Firenze)  in   via
 Taddeini n. 69;
     sul ricorso n. 7159/95 depositato il 1 dicembre 1995;
     avverso  avv.  di  liquid.  n.  91/03002/000085/002,  successione
 contro registro  di  Firenze,  giudiziari  successioni,  proposto  da
 Maltomini   Stefano,  residente  a  Montespertoli  (Firenze)  in  via
 Taddeini n. 69;
     sul ricorso n. 7160/95 depositato il 1 dicemebre 1995;
     avverso  avv.  di  liquid.  n.  91/03002/000085/002,  successione
 contro  registro  di  Firenze,  giudiziari  successioni,  proposto da
 Maltomini  Graziano,  residente  a  Montespertoli  (Firenze)  in  via
 Taddeini n.  34.
   La  commissione  tributaria  provinciale  di Firenze sez. X solleva
 d'ufficio eccezione di incostituzionalita'  dell'art. 48  del  d.lgs.
 31   dicembre  1992,  n.  546  (conciliazione  giudiziale)  ritenendo
 rilevante  e  non  infondata  la    questione  con   riferimento   al
 procedimento oggetto di giudizio;
                     La Rilevanza della questione
 Maestrini Iolanda, Maltomini Stefano e Maltomini Graziano ricorrevano
 avverso  avvisi di rettifica e liquidazione dell'ufficio del registro
 di successioni di  Firenze  con  riferimento  alla  dichiarazione  di
 successione in morte di Maltomini Augusto. I ricorsi venivano riuniti
 per connessione.  Si deve precisare che la successione ha per oggetto
 tre   immobili  valutati  dai  ricorrenti  complessivamente  lire  15
 milioni.  L'ufficio  ha  accertato,   invece,   un   valore   di   L.
 1.250.000.000.    Indipendentemente  dai motivi di impugnazione preme
 rilevare  che  l'Ufficio  si  costituiva   nel   presente   giudizio,
 contestava  le  affermazioni, dei ricorrenti e sottolineava che i tre
 immobili, unitariamente dichiarati dagli eredi  ora  ricorrenti,  non
 sono classificati e destinati esclusivamente ad attivita' agricola ma
 sono  utilizzati  in  parte  anche  come pizzeria-ristorante, area di
 servizio del ristorante, abitazione e solo  parzialmente  adibiti  ad
 uso    agricolo.   Dovendosi valutare il valore venale di mercato dei
 tre immobili - in assenza di valutazione  automatica  -    lo  stesso
 ufficio  in  una sua memoria 6 aprile 1999 osserva che:  il complesso
 immobiliare si compone  di  terreni  e  fabbricati  in  Montespertoli
 (Firenze)  per  complessivi  mq.  63.540.  Un  fabbricato "denominato
 Arzillo" si sviluppa per 700 metri quadri, benche'  qualificato  come
 "rurale"  in  realta'  e'  sede della pizzeria e ristorante "Il Nuovo
 Safari"; altro fabbricato denominato "Lastrino", ha una volumetria di
 metri cubi 2.000 di cui 757 ad uso abitativo con licenza comunale;  i
 terreni  si  estendono  per mq. 63.540, sono in parte utilizzati come
 area a servizio del ristorante ed in parte sono coltivati ad uliveto;
 lo stesso redattore della memoria osserva che la valutazione  globale
 di  L.  1.250.000.000 non pare   davvero eccessiva, se si tiene conto
 della appetibilita' della zona (Toscana vicino  a  Firenze)  e  della
 estensione  delle  parti  coperte e ad uso commerciale e abitativo, a
 parte l'ottima resa del terreno ad ulivo.   Chiesto  ed  ottenuto  un
 rinvio  per  conciliazione alla prima udienza, in data 23 giugno 1999
 perveniva una "proposta di conciliazione" prontamente  accolta  dalle
 controparti, in cui l'ufficio - a parte una riduzione per un asserito
 errore - dichiarava di voler operare una riduzione del 35% sul valore
 accertato,  portandolo  in  concreto  a complessivi lire 700 milioni.
 Pare alla commissione che la limitazione dei poteri della commissione
 stessa alla "verifica delle  condizioni  di  ammissibilita'  e  della
 sussistenza  dei  presupposti",  ai  sensi  dell'art.  48  del  nuovo
 contenzioso   tributario,   costituisca   violazione   di    principi
 costituzionali  e  che  risulti dimostrato, da quanto detto sopra, la
 rilevanza della questione poiche', in  concreto,  lo  Stato  viene  a
 perdere  (rispetto  al valore accertato) circa 50 milioni di imposta,
 ove l'ufficio  -  se  non  fosse  stata  presentata  la  proposta  di
 conciliazione  -  avesse,  per  avventura,  ottenuto  la vittoria nel
 giudizio.
                  La non infondatezza della questione
 Oltre che rilevante nel caso di specie la questione e', ad avviso  di
 questa  commissione, chiaramente non infondata sotto diversi profili.
 In primo luogo il punto fondamentale e' che  gli  uffici  possono,  a
 loro  insindacabile  giudizio  e senza neppure motivazione alcuna (in
 contrasto con i principi della legislazione ordinaria  amministrativa
 che  impongono  la  trasparenza  e motivazione degli atti della p.a.)
 operare  "sconti",  senza  limiti  rispetto  ai  valori  accertati  e
 sostenuti  con  la  costituzione  in  giudizio appena poche settimane
 prima e cio' contrasta, ad avviso della commissione, con il principio
 costituzionale di cui all'art. 97 per cui la  gestione  dei  pubblici
 uffici  deve esser improntata ad imparzialita', mentre, nella specie,
 mancando qualunque parametro di  riferimento,  i  singoli  funzionari
 sono  (fin  troppo)  liberi  di  trattare  in  modo del tutto diverso
 situazioni tributarie analoghe od uguali.  In secondo  luogo  proprio
 l'assoluta  discrezionalita',  esente da motivazione dell'operato del
 funzionario viola il disposto dell'art.  53 che afferma l'obbligo dei
 cittadini di concorrere alle spese pubbliche in  ragione  della  loro
 capacita'   contributiva  mentre,  operando  conciliazioni  prive  di
 controlli, si realizzano  discriminazioni  inevitabili,  anche  senza
 ipotizzare  comportamenti  illeciti.    In  terzo  luogo  si viola il
 principio  dell'art.  104  che  afferma   la   "indipendenza"   della
 Magistratura   da   ogni  altro  potere.    Nella  specie  un  organo
 giurisdizionale, come e' pacifico siano le commissioni tributarie, e'
 del  tutto  soggetto  alle decisioni dell'amministrazione se e' vero,
 come e' vero,  che  il  controllo  sulla  conciliazione  proposta  e'
 meramente  formale e non sulla congruita' degli imponibili e, dunque,
 delle imposte concordate.  Non potere valutare  se  la  conciliazione
 sia  o  meno  congrua,  nella  sostanza, delegittima completamente il
 ruolo del giudice , ridotto a quello di un "notaro"  di  un  avvenuto
 accordo  su  cui non puo' interferire.  Ne' si dica che, similmente a
 quanto avviene nel giudizio civile, la  conciliazione  o  transazione
 anche  stragiudiziale  avvenuta  tra le parti, non consente un vaglio
 del giudicante perche' le situazioni sono del  tutto  diverse  e  non
 equiparabili.   Nel giudizio tributario una parte e' privata, l'altra
 pubblica e quest'ultima porta in giudizio  e  rappresenta  uno  degli
 interessi  vitali  dello  Stato,  perche' l'imposizione fiscale e' il
 mezzo principale di sostentamento dello Stato medesimo.    La  stessa
 Corte  costituzionale,  in  numerose,  costanti decisioni, con cui ha
 respinto  varie  questioni  di  incostituzionalita'   sollevate   con
 riferimento  a  diverse  norme  fiscali,  ha sempre affermato - anche
 laddove un  paritetico  rapporto  privatistico  avrebbe  condotto  ad
 opposte  conclusioni - che le norme denunciate di incostituzionalita'
 non lo sono perche' si deve sempre considerare  l'interesse  primario
 dello  Stato  all'afflusso  di denaro nelle sue casse.  Applicando lo
 stesso, ricorrente principio, deducibile da tante  decisioni  pare  a
 questa  commissione  che  non si possa equiparare la conciliazione di
 cui ora si tratta  con  quelle  che  si  verificano  nell'ambito  del
 giudizio  civile.    La  delegittimazione  della  funzione giudicante
 appare ovvia e certa e se occorresse un recente paragone, in  materia
 egualmente  di  interesse  primario  per  lo Stato, quella penale, si
 pensi alla dichiarata incostituzionalita' dell'art. 444, comma 2, del
 codice processuale penale,  nella  parte  che  non  prevedeva,  nella
 originaria  stesura  della  norma,  la possibilita' per il giudice di
 valutare   la   congruita'   della   pena   proposta   in   sede   di
 "patteggiamento"  dall'imputato  e  accettata dal pubblico Ministero.
 Il prevalente interesse pubblico, la necessita'  di  non  svilire  la
 funzione  del  giudice,  impedendogli  di  esprimere  l'essenza della
 giurisdizione stessa condussero la Corte (sent.  2  luglio  1990,  n.
 313) ad un pronto rimedio all'errore del legislatore.